Archivio mensile:aprile 2020

TUTTA COLPA DEL CASO .Storia di una volontaria rassegnata che aveva riposto le speranze in un cassetto

Ciao, mi chiamo Rebecca ho 23 anni, vivo in Calabria da sempre e sono una ragazza solare, un po’ introversa, laboriosa, sensibile e con un debole per i film, le serie tv e il buon e vecchio rock; nella vita studio e a piccoli passi cerco di realizzare il mio sogno. Due sono le cose che mi contraddistinguono, il sorriso e l’empatia, due forze che ho fatto fatica a volte ad accettare, ma che, nel corso del tempo mi hanno portato sulla strada della solidarietà e del volontariato, perché ho sempre pensato che in momenti difficili, un semplice sorriso o un abbraccio silenzioso riescano a dare conforto più delle parole.

Questa non è la classica storia di una normale volontaria del servizio civile, e voi adesso vi chiederete “perché, tu cos’hai di così speciale?” io personalmente, oltre ad essere a tratti euforica e a tratti silenziosa, sono sempre la ragazza di 23 anni sopra descritta, ciò che qui ha qualcosa di particolare è il modo in cui è avvenuto il mio ingresso nel mondo del servizio civile.

Partiamo. Nell’ottobre del 2019 decido, su consiglio di un’amica di famiglia, di provare a fare domanda per il servizio civile. Leggendo un po’ di qua e di la’ mi sono detta “ma si, dai , perché non provi, è una nuova esperienza che può darti tanto, può aiutarti a crescere, ad imparare cose nuove e forse ad uscire un po’ da quel tanto accogliente,quanto a volte isolato, guscio che ti sei cucita sù. E così sia! Apro il computer, vado sul sito del servizio civile, compilo tutti i campi obbligatori, faccio una scrematura dei progetti che più mi attiravano e arrivo alla scelta dei tre vincitori; così, con quel po’ di tristezza per non poter farli tutti, faccio la mia ultima scelta e premo il tasto invio.  

E da qui ha inizio una relazione che sa a volte damore, passione e odio, quella tra me e il caso. Sì proprio quel tipo di caso che può ribaltare in bene o in male (dipende dai punti di vista) tutti i tuoi piani, e questa volta mi ha voluto mettere alla prova, perché? Semplice, avevo sbagliato a scegliere il progetto e invece di cliccare sul nome del vincitore, ho premuto il nome del secondo arrivato. Già, medaglia d’argento, da un lato meglio, perché l’oro non mi dona affatto. Così, quando l’ho scoperto mi sono detta “ah, bella storia e adesso? Adesso niente, mi rimbocco le maniche, studio per bene e cerco di concentrarmi sul colloquio, cerco di fare bella impressione, insomma cerco di essere il più possibile me stessa”. E così ho fatto!

Passa un mese e il tanto atteso giorno arriva! Sveglia presto, mi preparo, un saluto veloce al cane, esco di casa, musica nell’orecchie, prendo il pullman e finalmente arrivo a destinazione. PANICO! Eh be sì ci sta unpo’ di ansia, però a esser sincera, se oggi ci penso, quella volta non ero tanto preoccupata, ero più carica e sicura del solito,  già,  più sicura… forse era meglio esserlo un po’ meno.

Purtroppo non mi scelgono. Ovviamente ci sono rimasta male e ho iniziato a farmi tante domande sul perché, su cosa avessi sbagliato e su cosa avrei dovuto lavorare per fare meglio poi. E qui so che vi starete ponendo un’altra domanda “ma se non sei stata presa, perché ti stiamo leggendo?”  anche questa volta, per la seconda volta è tutta colpa del caso. E così dal nulla, dopo mesi passati senza sperarci più, a Febbraio mi arriva un’email dove semplicemente venivo informata di un eventuale subentro per il progetto a cui avevo fatto domanda. Appena ho letto questa email non riuscivo a crederci, ero così stranita ma allo stesso tempo così calma e concentrata da prendere il telefono e chiamare la sede centrale per fare chiarezza. Dopo circa 20 minuti di telefonata e una nuova email inviata, era fatta, ero ufficialmente o quasi, burocrazia a parte, una volontaria del servizio civile presso le ACLI di Cosenza.

E come si suol dire “non c’è due senza tre”, il nostro ormai miglior amico caso fa il suo ingresso trionfale e PANDEMIA. Ancora una volta le mie speranze svaniscono, le ho immaginate lì, su un treno che sta partendo e io che le rincorro disperatamente senza poterle raggiungere.                          

Ma proprio quando meno te l’aspetti, o meglio proprio il giorno in cui p accadere di tutto, giorno venerdì 17 Aprile, ricevo una telefonata dalla responsabile del progetto, la quale, senza giri di parole, mi informa che giorno 20 Aprile avrei preso effettivamente (io direi pure FINALMENTE) servizio.  E così è stato, dopo tre giorni, Lunedì 20 prima riunione online su Skype, ovviamente io spaventatissima, anche perché stavo entrando in un gruppo già formato e io, che ero sempre la timida della classe, non sapevo se sarei riuscita a far sentire la mia voce, le mie idee; in quel momento non sapevo nulla! Però questa volta sono stata fortunata, ha lavorato bene il caso, perché ho trovato un team unico e fantastico, dalla responsabile Teresa, alle colleghe Sara, Placidia ed Elisa, super carine, gentili e disponibili, che mi hanno accolto benissimo e da un piccolo schermo sono riuscite ad esprimere tutto il loro calore, che io ho percepito e tanto tanto apprezzato; grazie ragazze. 

Io solitamente non credo nel caso, ho sempre pensato che siamo noi a scegliere chi siamo, che tutto dipenda dalle nostre azioni, che la vita è una sorta di catena dove ogni anello rappresenta una conseguenza del nostro operato, ma questa volta mi sono dovuta ricredere, e direi pure, dalla “scelta sbagliata” del progetto (ora non poi così sbagliata) al gruppo di giovani volontarie tutto al femminile, tutto sommato devo solo dire grazie caso, questa volta hai giocato bene le tue carte.  Ora ti accolgo nuovo amico, ma con un pizzico di titubanza, anche perché siamo solo nella fase di decollo di questo percorso, iniziato in un annoche verrà ricordato come l’anno del COVID” e “dell’andrà tutto bene”. Insomma saranno dodici mesi interessanti ma soprattutto in compagnia dei tuoi giochetti, ti sento vicino. Chissà, “caso” che souvenir porteraiquesta volta.  

 

 

Servizio civile Acli Cosenza

¿Hola, qué tal? ¡Espero bien!

Ebbene sì, scrivo dalla Spagna falcidiata come il Nostro amato Stivale da un UFO subdolo, perché di un Unidentified Flying Object si tratta, di questo essere non essere che si prende vite e se le porta via.

Mi chiamo Fabio, vengo da Milano e sono uno studente Erasmus+ e aclista a Saragozza per la tesi del master. Sono arrivato in Spagna lo scorso settembre per fare esami del primo semestre e lo scopo era di lavorare sulla tesi durante la seconda parte dell’anno, ma qualcosa sta rallentando tutti i piani e non solo i miei.

Riavvolgendo il nastro, weekend del 6-8 marzo, l’Italia già versava in una situazione non facile, ma la Spagna tuttavia aveva ancora pochi casi isolati (circa 400 a Madrid) concentrati nelle grandi città turistiche. La situazione pareva sotto controllo e la vita trascorreva del tutto normalmente, tant’è che con miei compagni Erasmus eravamo in gita a Madrid per l’appunto; tornati a Saragozza, la settimana seguente arrivano notizie non confortanti da Madrid e dalla Catalogna, soprattutto per noi italiani a conoscenza di ciò che accadeva ai nostri cari nel Belpaese: in meno di una settimana la situazione precipita, compaiono servizi televisivi che immortalano gente con mascherine, cosa che getta nel panico la popolazione, tale e quale all’effetto ottenuto in Italia, sembrava un REPLAY, ma accelerato.

Infatti, venerdì 13 marzo, appena tornato a casa dall’università per l’ora di pranzo (h14.00 in quanto si trasla tutto di 1-2 ore normalmente), entra di corsa in casa il mio coinquilino catalano dicendo: “¡Ojo! ¡La televisión, Sanchez!” frase che penso ricorderò per parecchio tempo dalla facile comprensione soprattutto perché qui si usa ojo come noi a Milano ocio, nel contesto “attenzione!”. Potrebbe essere superfluo ricordare che Sanchez è il capo del governo, ma siccome se ne parla quotidianamente come ora del Presidente del Consiglio Conte, è importante avere le idee ben chiare. In pratica ha dichiarato el estado de alarma (“stato d’allarme “) a partire dalle h15.00 in tutta Spagna: si può immaginare il subbuglio creatosi nell’arco di un’ora per le strade, simile a quello visto ai telegiornali italiani, ma con la differenza che qui a Saragozza mi è parso più ordinato e controllato, forse avendo visto l’esempio italiano in precedenza.

Dopo questo inizio con trambusto la situazione si è calmata, le giornate passano tranquille con tre appuntamenti fissi sui balconi: alle 18.00, alle 20.00 e alle 21.00. Il motivo del primo orario cambia di giorno in giorno, ma non è molto seguito dai saragozani. Invece il motivo delle 20.00 è l’applauso alle forze dell’odine, agricoltori, supermercati e reparti sanitari; la città si riaccende improvvisamente e si sentono non più solo sirene di ambulanze, ma sirene a festa della Guardia civil e della Policia e interminabili applausi con musiche folkloristiche spagnole, tutto per anche 20 minuti ininterrottamente. Per ultimo alle 21.00 la gente si affaccia con pentole, padelle e semplicemente fa il maggior chiasso possibile, come alla Corrida di Gerry Scotti.

È un periodo di continui cambiamenti, le notizie buone mancano, ma arriveranno: la fiducia degli spagnoli nella comunità scientifica e sanitaria è notevole ed è percepibile una maggior responsabilità sociale rispetto all’Italia; credo sia anche questo il motivo per cui il governo non è passato ancora al secondo livello di stato d’allarme (ci sono 3 gradi di intensità), però a Saragozza sono stati in grado di costruire un ospedale da campo con 400 posti letto in terapia intensiva in 10 giorni per un totale di 52000 mq. Inoltre, la situazione in Aragona è una delle migliori della Spagna, tant’è che gli ospedali hanno ancora un 30% dei posti letti liberi e fruibili per COVD_19.

Questa battaglia la si vince tutti assieme con la città, che come dicono qui in uno spot: non vede l’ora di sentirsi calpestata nuovamente dalle migliaia di persone che quotidianamente popolano le sue strade.

¡VOLVEREMOS!

Fabio Legnani

il compleanno virtuale di nonno Beppe

Oggi, 22 marzo 2020 il Nonno Beppe compie 79 anni, credo.

Il compleanno è stato festeggiato su un gruppo Whatsapp famigliare.

Eravamo io e mio fratello Leo, mamma e Andre, zii coi cugini e loro, Nonna e Nonno.

I primi cinque minuti li abbiamo passati a cercare di far capire a nonna intanto che era il compleanno di nonno e non il suo; a lei piace tanto stare al centro della conversazione, e secondo, che doveva mettere il cellulare più lontano dall’asticella dei suoi occhiali, perchè sinceramente delle sue rughine a zampa di gallina intorno agli occhi e del suo orecchio non ce ne fregava molto.

Abbiamo parlato del più e del meno, a tratti, perché capivamo poco. Quasi detto niente del Corona. Nonna Martina si è presentata elegante, con una camicia bordeaux e una giacca di velluto nero floreale, un rossetto rosso e i capelli appena fatti. Ovviamente con un flûte di spumante già in mano, come succede quando ci accoglie ad ogni compleanno che festeggiamo in quella casa almeno da quando sono nato. Ogni compleanno, di tutti.

Nonno fa le sue classiche battute e ringrazia col cuore in mano anche per questo gesto, come ogni volta. Ho visto poche persone essere così sincere per l’affetto che provano nei confronti della propria famiglia.

Nonno Beppe si commuove leggermente ad ogni suo micro-discorso di ringraziamento ogni volta che lo festeggiamo.

È coraggioso.

Ci vuole bene davvero.

Tra battute sul fatto che è solo con nonna e che si sopportano tanto quanto basta il minimo per farli urlare, brindiamo.

Noi con due barattoli a mo’ di bicchiere con acqua del rubinetto, mamma con acqua, Andre con grappa, i ragazzi con vino e acqua, i nonni con i flûte di prosecco.

Cin.

Sui saluti nonna dice:

“Avete visto la ta..lata?”

Noi:

“Ehh?”

Ribadisce:

“Avete visto la tavolata?”

E per miracolo riesce a girare la telecamera inquadrando i nostri posti a tavola con loro. Era apparecchiato tutto.

Perfetto, come vuole lei, se no non va bene, per nonno, per il suo Beppe.

I fiori come centro-tavola, tutto simmetrico, preciso: tovaglioli ripiegati, doppie posate, bicchiere per l’acqua, bicchiere per il vino e per lo spumante, doppio piatto e via discorrendo; per ognuno di noi, ma vuoto.

Io non credo molto nell’amore in tarda età, penso sia più una sopportazione maniacale.

Ma quel che è certo, è che ho avuto una strizzata al cuore che solo ste robe mi sanno dare.

Pure mia cugina, anche se forse sono stati i pixel sgranati a farmi vedere ciò che in realtà mi stavo immaginando.

Comunque vada, io quando e se, sarò vecchio, voglio essere come mio nonno.

Auguri Beppe

 

(Servizio Civile Modena  Romeo Cuoghi)

E, senza forse, ci sentiremo ancora più fortunati

La mia prima volta a Lisbona è stata nell’agosto del 2011. Ero in compagnia delle mie amiche dell’università e ricordo ancora la sensazione di “casa” che ho provato appena scesi dalla metropolitana e poggiai il piede sulla calçada. Respiravo per le strade l’aria della celebre saudade, quella nostalgia letta sui libri per ciò che era stato perduto incatenando il popolo portoghese al passato e che, paradossalmente, aveva il potere di ricongiungersi con il presente. Dal noi dei libri all’io della mia vita, tutto quello che avevo nascosto tra i pensieri sembrava finalmente trovare una forma. È stata questa la percezione che mi ha lasciato il segno e che mi ha accompagnato ad ogni mio ritorno in quella città.

Alla domanda “Ma perché proprio Lisbona?” non tutti comprendono le mie motivazioni. Come si spiega la nostalgia, controversa e naturale allo stesso tempo, di qualcosa di perduto o che, a volte, non è stato mai vissuto?

Eppure credo che in questo clima dove le nostre vite sono state stravolte, forse un po’ tutti percepiamo – ognuno a modo suo – una sorta di saudade. Delle nostre vecchie abitudini e dei nostri affetti, ripensando anche a quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, alle parole che avremmo potuto dire e non abbiamo detto.

Quanti di noi avevano progettato viaggi, incontri, abbracci, scadenze, la vita. E anche rimandato qualcosa, perché nella convinzione di avere di tutto il tempo.

Quante persone, come me, programmavano le festività di Pasqua. Già immaginavo il viaggio in treno, i giorni precedenti sotto i portici di Bologna alla ricerca di giocattoli da regalare ai miei nipoti, loro che avrebbero recitato la poesia imparata a scuola con tutta la famiglia entusiasta di ascoltare, gli incontri con le mie amiche e magari anche la passeggiata lungo il mare di Napoli, la seconda cosa che desidero vedere ogni qual volta torno alle mie radici.

Immagini che non potranno concretizzarsi, almeno per ora, ma che lasciano spazio ad altre immagini, anche nuove: tutte le cose che vorrò e che tutti noi vorremo fare appena ci sarà la possibilità.

Io voglio sperare che questa sorta di saudade, che forse proviamo, possa insegnare qualcosa a noi che avremo la fortuna di poter riabbracciare i nostri cari e tornare alla nostra normalità. Senza retoriche, ma con consapevolezze, ripensando alla nostra scala di priorità, dando il giusto valore al tempo e imparando da questo presente che diventerà passato per vivere diversamente il nostro futuro.

Passato, presente e futuro costituiscono la linea del tempo, e su di esso mi viene in mente il pensiero del filosofo francese Henri Bergson: c’è il tempo oggettivo, scandito dalle lancette di un orologio, schematico e regolare, e c’è il tempo soggettivo, dettato dalle percezioni con cui viviamo ogni singolo attimo, ampliandone o riducendone la durata.

Una parte di noi, imparando o provando a gestire il tempo oggettivo, potrebbe aver dimenticato quello soggettivo, costituito anche dai ricordi e emozioni della nostra vita, che ci lascino un sorriso o meno.

Forse, stavolta, vivremo diversamente un gesto o una parola, concentrati solo sul tempo soggettivo, senza pensare a quello oggettivo che scorre e non dando nulla per scontato.

Forse, stavolta, vedremo le tonalità di grigio tra il bianco e il nero.

Forse, stavolta, accoglieremo anche ciò che respingiamo e saremo più coraggiosi.

Forse, stavolta, impareremo a valorizzare ciò che questa saudade ci sta raccontando.

Forse, così, troveremo un senso a tutto ciò che ci sta capitando.

Perché nella nostra solitudine non siamo davvero soli.

Inevitabilmente qualcosa non sarà come prima e, senza forse, ci sentiremo ancora più fortunati.

Rosa De Angelis – Giovani delle Acli Bologna

#iorestocalmo: paura e ansia ai tempi del Covid-19

#iorestocalmo: è solo una piccola modifica dell’ormai diffusissimo #iorestoacasa, eppure l’hashtag così modificato compare nelle didascalie di soli quattro post su Instagram, contro il milione del fratello maggiore. Ma perché ricordarci di stare calmi è, a mio parere, ancora più importante che ribadire di stare a casa?

Sono Margherita Musco, una studentessa universitaria di 23 anni: nel 2018 mi sono laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche e ora sto per concludere il mio percorso di studi in Psicologia Clinica e Neuropsicologia nel Ciclo di Vita all’Università di Milano Bicocca. Ho deciso di condividere con voi un po’ di quello che ho imparato in questi anni su paura e ansia per invitarvi a riflettere e a trasformare la riflessione in un’azione concreta (questo con l’aiuto di un “esperto” del respiro).

In questo momento storico senza precedenti, infatti, l’incertezza pervade ogni aspetto della nostra vita pubblica e privata e favorisce una forte reazione emotiva, ingigantita dalle modalità attuali di diffusione delle notizie (in primis, i social media): la situazione in cui siamo ci fa senza dubbio paura e genera in noi un’ansia difficilmente gestibile, che rischia di avere effetti controproducenti sulla nostra capacità di fronteggiare la diffusione del contagio, oltre che sul nostro benessere psicofisico.

Ma quando parliamo di paura e ansia, di cosa stiamo parlando? Qual è la differenza tra le due?

Da una parte abbiamo la paura: essa è un’emozione primordiale e immediata causata da un pericolo esterno chiaramente riconosciuto dal soggetto, con una durata limitata nel tempo (quando il pericolo viene meno, essa si estingue). Dall’altra parte, invece, abbiamo l’ansia: lo psichiatra premio Nobel Eric Kandel la definisce come una risposta normale e innata alla minaccia (alla persona, all’autostima) o all’assenza di persone o oggetti che assicurano e “significano” sicurezza. Un moderato livello di ansia è utile per reclutare tutte le risorse in proprio possesso, ma a livelli estremi diventa controproducente e dannosa per la salute psichica e fisica.

Ansia e paura condividono alcuni aspetti, ma si differenziano per due caratteristiche principali: lo stimolo scatenante e la dimensione temporale. Infatti, la paura è scatenata da uno stimolo contingente, specifico e ben definito, mentre l’ansia è più spesso una situazione generica di apprensione rispetto a situazioni nuove o pericoli futuri poco definiti. Quale delle due reazioni è dunque maggiormente associata alla situazione attuale? Entrambe. Infatti, non appena le notizie sulla diffusione del virus e sul suo grado di letalità hanno iniziato a diffondersi, la prima reazione di molti di noi è stata una reazione di paura: in primis paura per noi stessi e per la nostra salute, ma anche paura per i nostri cari. In un secondo momento, la paura ha lasciato il posto ad una sensazione pervasiva di incertezza e instabilità, che potremmo definire come ansia. Ma perché reagiamo in modo così debilitante di fronte a questa nuova minaccia? Perché essa tocca moltissimi aspetti della nostra vita, anche aspetti che raramente vengono messi così tanto in discussione: la salute, l’economia, la libertà personale, le modalità di comunicazione, la socialità, le abitudini. Ci sentiamo in balia di qualcosa che è molto più grande di noi, che nessuno riesce a controllare, ed è praticamente impossibile dimenticarsi di ciò che stiamo vivendo, tanto che l’ansia è diventata una compagna perenne delle nostre nuove vite casalinghe.

Cosa possiamo fare, quindi, per combatterla? Ho chiesto ad Alessandra di Prampero, insegnante di Yoga a Milano, se ha qualche consiglio pratico da darci:

“Il respiro è profondamente correlato ai nostri stati d’animo: quando siamo in un momento di ansia e/o stress, tendiamo a fare dei respiri corti con i muscoli della parte alta del torace continuando a mandare al corpo il messaggio che c’è un pericolo che ci minaccia. Ma così come lo stress agisce sul nostro respiro, allo stesso modo noi lavorando sul respiro possiamo avere un influsso sul nostro stato d’animo e diminuire la nostra risposta ansiosa, interrompendo il circolo vizioso.

Di seguito quindi vi propongo un piccolo lavoro con il respiro, la cui intenzione è di espandere nuovamente il respiro nella schiena. Per lavorare sul respiro è utile pensare che in realtà non c’è niente che dovete fare. Non è necessario fare profonde inspirazioni o espirazioni. Dovete solo lasciare andare contratture, abitudini errate e lasciare libere di muoversi alcune parti del corpo, dove abitualmente non sentite il respiro.

Esercizio:

sedetevi a gambe incrociate vicino al muro (se necessario sedetevi su un piccolo cuscino) e poi mettete un grande cuscino tra la vostra schiena e il muro. Il cuscino vi serve per divenire consapevoli della vostra schiena. Iniziate respirando normalmente per un paio di respiri, poi continuate a respirare normalmente, ma iniziate a portare l’attenzione al contatto tra la vostra schiena e il cuscino. Adesso rilassate l’addome e se vi è più facile espirate con la bocca aperta. Sentite se percepite del movimento nella parte bassa della schiena, intorno al sacro, quando respirate. Rimanete un po’ all’ascolto di quella parte della schiena, poi risalite e portate l’attenzione al respiro nella zona lombare. Rimanete lì e poi salite ancora un altro po’, portando attenzione alla parte posteriore inferiore del vostro torace, intorno ai vostri reni. E poi risalite ancora, portando attenzione al respiro nella zona delle scapole e delle spalle.

Alla fine, quando siete risaliti con la vostra attenzione lungo tutta la colonna vertebrale, rimanete all’ascolto e percepite tutta la vostra schiena che respira contro il cuscino. E prendete consapevolezza del vostro stato interiore, se è cambiato qualcosa.

Non abbiate fretta e non spingete apposta il respiro dietro, lasciatevi semplicemente andare nel supporto del respiro nella vostra schiena…”

#iorestoacasa #iorestocalmo #acliminsiemesipuò #viciniadistanza

Margherita Musco

(GA Milano)

Eccoci. Come quella volta che avremmo potuto farlo.

Ho perso i 65 anni di mio papà, appuntamento telefonico della mia domenica.

Ho perso i 60 anni di matrimonio dei miei nonni. Non li sento da molto, da quando il 14 febbraio mi hanno chiamato pensando che fosse il mio compleanno. Ma non lo era.

Perderò a breve  i 55 anni di mamma, quella mamma che non chiamo mai, ci sentiamo solo per messaggio mentre, tra un minuto e l’altro che separa alle nostre distanze, cuce le mascherine per gli ospedali della mia terra. Oh, la mia terra. Mia come dice il mio cuore, mia come dice il mio sangue, degli altri come dice ormai il mio accento perduto.

Perderò la Pasqua, perderò Pasquetta. Non ricordo da quanto tempo non organizzo, non partecipo ad una Pasquetta.

Ricordo a mala pena la libertà della festa, delle occasioni. Della liberazione del 25 aprile, del 1 maggio, feste per tutti noi.

Ricordo pochissimo la spensieratezza degli aperitivi programmati e delle cene spensierate, avvenuto per caso, nel caso dei nostri tempi scanditi da agende e treni e bus e eventi. Ma quali eventi?

Eventi di lavoro.

Sento, in queste quattro mura, il calore dei miei colleghi. Sento la loro gratitudine, il loro supporto, la loro estrema bellezza nello stare lì, fermi, a fare quelli che si deve fare, per gli altri. E forse anche per se stessi.

Ricordo, chiusa tra queste porte aperte di casa mia, il rumore dei treni, i passi svelti della stazione, i bus che portano tutti a destinazione, le macchine frenetiche e impazienti, il respiro dell’attesa che cadenza il tempo tra una fermata e l’altra, verso il posto di lavoro.

Ricordo il camminare solito, noioso e annoiato, quello che in tante occasioni ho pensato: “devo cambiare”, come se cambiare strada volesse dire dare energia alla giornata. Quel camminare che mi porta a prendere il solito caffè. Tra le solite battute.

Ho perso quei passi. Mi fanno male le anche. Già sento l’arrivo del mal di schiena. Come se il corpo si fermasse. Ho perso il corpo. Non mi porta dove devo stare, dove voglio stare, dove mi diverte stare. Il corpo mi tiene ferma nell’attesa, tra questa quattro mura.

In questo corpo fermo, sento il sangue vibrare, continuamente, e con lui la testa: stai tesa, ché sta per passare. Stai in allerta, che stai facendo la cosa giusta. Stai in campana, che bisogna essere presenti a se stessi. Non perderti: lavora, ma lì ferma.

Ho perso le lacrime. Non scendono. Mai. Neanche quando penso che mi mancano così tante persone quante ne ho trascurate nel corso del tempo. Eppure era il mio tempo. E io non c’ero. Ero altrove.

Non riesco ad odiare questo fermarsi. Questa attesa che brucia il corpo e corrode la mente, io, non riesco ad odiarla. Anzi, la amo. Mi dice che ci sono. Mi ricorda che posso scegliere di non essere altrove. Mi racconta della mia solitudine e della mia socialità, del mio benessere, delle mie fortune. È questo stare immobile che mi dice quanto potrei stare in movimento.

Non vedo l’ora che tutto abbia fine. Per riprendere a respirare. Per dirmi che ho fatto bene a resistere, per ogni singola persona che, comunque sia andata e comunque vada, vale la pena avere nella propria vita.

 

Carolina Ciccarelli, Giovani delle Acli Bologna