La mia prima volta a Lisbona è stata nell’agosto del 2011. Ero in compagnia delle mie amiche dell’università e ricordo ancora la sensazione di “casa” che ho provato appena scesi dalla metropolitana e poggiai il piede sulla calçada. Respiravo per le strade l’aria della celebre saudade, quella nostalgia letta sui libri per ciò che era stato perduto incatenando il popolo portoghese al passato e che, paradossalmente, aveva il potere di ricongiungersi con il presente. Dal noi dei libri all’io della mia vita, tutto quello che avevo nascosto tra i pensieri sembrava finalmente trovare una forma. È stata questa la percezione che mi ha lasciato il segno e che mi ha accompagnato ad ogni mio ritorno in quella città.
Alla domanda “Ma perché proprio Lisbona?” non tutti comprendono le mie motivazioni. Come si spiega la nostalgia, controversa e naturale allo stesso tempo, di qualcosa di perduto o che, a volte, non è stato mai vissuto?
Eppure credo che in questo clima dove le nostre vite sono state stravolte, forse un po’ tutti percepiamo – ognuno a modo suo – una sorta di saudade. Delle nostre vecchie abitudini e dei nostri affetti, ripensando anche a quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, alle parole che avremmo potuto dire e non abbiamo detto.
Quanti di noi avevano progettato viaggi, incontri, abbracci, scadenze, la vita. E anche rimandato qualcosa, perché nella convinzione di avere di tutto il tempo.
Quante persone, come me, programmavano le festività di Pasqua. Già immaginavo il viaggio in treno, i giorni precedenti sotto i portici di Bologna alla ricerca di giocattoli da regalare ai miei nipoti, loro che avrebbero recitato la poesia imparata a scuola con tutta la famiglia entusiasta di ascoltare, gli incontri con le mie amiche e magari anche la passeggiata lungo il mare di Napoli, la seconda cosa che desidero vedere ogni qual volta torno alle mie radici.
Immagini che non potranno concretizzarsi, almeno per ora, ma che lasciano spazio ad altre immagini, anche nuove: tutte le cose che vorrò e che tutti noi vorremo fare appena ci sarà la possibilità.
Io voglio sperare che questa sorta di saudade, che forse proviamo, possa insegnare qualcosa a noi che avremo la fortuna di poter riabbracciare i nostri cari e tornare alla nostra normalità. Senza retoriche, ma con consapevolezze, ripensando alla nostra scala di priorità, dando il giusto valore al tempo e imparando da questo presente che diventerà passato per vivere diversamente il nostro futuro.
Passato, presente e futuro costituiscono la linea del tempo, e su di esso mi viene in mente il pensiero del filosofo francese Henri Bergson: c’è il tempo oggettivo, scandito dalle lancette di un orologio, schematico e regolare, e c’è il tempo soggettivo, dettato dalle percezioni con cui viviamo ogni singolo attimo, ampliandone o riducendone la durata.
Una parte di noi, imparando o provando a gestire il tempo oggettivo, potrebbe aver dimenticato quello soggettivo, costituito anche dai ricordi e emozioni della nostra vita, che ci lascino un sorriso o meno.
Forse, stavolta, vivremo diversamente un gesto o una parola, concentrati solo sul tempo soggettivo, senza pensare a quello oggettivo che scorre e non dando nulla per scontato.
Forse, stavolta, vedremo le tonalità di grigio tra il bianco e il nero.
Forse, stavolta, accoglieremo anche ciò che respingiamo e saremo più coraggiosi.
Forse, stavolta, impareremo a valorizzare ciò che questa saudade ci sta raccontando.
Forse, così, troveremo un senso a tutto ciò che ci sta capitando.
Perché nella nostra solitudine non siamo davvero soli.
Inevitabilmente qualcosa non sarà come prima e, senza forse, ci sentiremo ancora più fortunati.
Rosa De Angelis – Giovani delle Acli Bologna