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Pensieri di Padre Elio Della Zuanna

Bio-Potere

Scenari politici nell’era del bio-potere, questo il titolo del secondo incontro del percorso di formazione politica di Comunità di Connessioni che si è tenuta sempre a Roma in Chiesa del Gesù.

Ospiti d’eccezione il giornalista Marco Damilano e il capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri Antonio Funiciello.

Dal 19 febbraio, data dell’ultimo incontro, è cambiato il mondo. La drammatica vicenda in Ucraina ha caratterizzato l’approccio di questo secondo appuntamento.

Padre Occhetta ha come sempre fornito un’introduzione spirituale invitandoci alla riflessione. “Abitare il silenzio. Contemplare l’azione”. Questo mondo che necessità di essere cambiato, di trovare bontà e giustizia, richiede uno sforzo di ciascuno. Ma questo passa, in primis, rivoluzionando se stessi, guardandosi dentro. Affrontando i propri limiti, ringraziare, ritrovare i valori fondanti.

È per me di gran lunga piú gradevole
osservare le stelle,
che sottoscrivere una sentenza di morte.
È per me di gran lunga piú gradevole
ascoltare le voci dei fiori,
che bisbigliano: « è lui! »,
quando passo per il giardino,
che vedere i fucili,
che uccidono quelli che vogliono
uccidere me.
Ecco perché non sarò mai
e poi mai
un uomo di governo!

Con questa poesia di Velimir Chlébnikov, Funiciello ci richiama all’enorme responsabilità dei governanti. In particolare in queste ore di guerra, dove la biopolitica, ovvero la politica che costudisce la vita, è messa a dura prova. In tal senso, i fatti di cronaca ci mostrano due modi totalmente opposti di raccontare e concepire la leadership politica. Da una parte, il presidente ucraino Zelensky sta trasformando il modo di comunicare con i propri cittadini sfruttando i nuovi mezzi di comunicazione per creare un senso di appartenenza.  Dall’altra, invece, il presidente Putin fa leva su un linguaggio e un modo arcaico e autoritario di relazionarsi con il proprio paese.

Anche nella seconda guerra mondiale i mezzi “ social” venivano utilizzati in modo diverso da Hitler e Roosvelt. Il cancelliere usava parole di morte, il Presidente parole di speranza, di fame di democrazia.

La biopolitica ha portato nella storia la necessità di prendere decisioni difficili, come l’atomica sul Giappone. La pace ha un costo. È un equilibrio precario che richiede ogni sforzo.

Marco Damilano sottolinea un grande limite per la biopolitica: il panorama frammentato contemporaneo. Una società plurale da un aparte è una risorsa per la democrazia, dall’altra la indebolisce nei rapporti verso l’esterno.

Marco Damilano ha sottolineato come nella storia sia nate diverse idee di politica. Una di queste è quella della “inevitabilità della storia”, che comporta una rigida meccanicità dell’agire politico: «la natura ha prodotto il mercato, che ha prodotto la democrazia, che ha prodotto la felicità. Non si può fare nient’altro, bisogna solo assecondare questo movimento», dice Damilano. Dall’altra parte, la “politica dell’eternità” cerca la sua giustificazione in narrazioni millenarie e dal sapore mitologico, che motivano ogni violenza e ogni atrocità. L’individuo si trova schiacciato (e accecato) da questi macigni storici, e si trova sottratto del suo libero arbitrio. Infine, la “politica dell’anti-politica” vuole rompere con il sistema, ribaltando lo status quo. Questa concezione non è in grado di generare un’idea di persona e un’idea di società se non quella di un’illusoria e falsa incorruttibilità, che però non riesce a portare frutti o a costruire il cambiamento sperato.

A queste visioni, Damilano propone un’alternativa: la “politica del cambiamento e della libertà”, ovvero l’unica via per permettere ai fatti di non rimanere sterili accadimenti. Solo così, infatti, la realtà può essere narrata e contestualizzata. Questo approccio si basa sulla consapevolezza di quello che Mounier chiama “l’avvenimento”, ossia il “maestro interiore”. Avvenimento è ciò che accade e che irrompe nelle nostre vite: il nostro compito è riconoscerlo e farlo risuonare a favore della comunità, ancora una volta narrando ciò che ci circonda.

Infine, Damilano richiama quello che deve essere un metodo: il valore della perseveranza, dell’impegno non urlato, secondo Isaia 42:

Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
2 Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
3 non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
4 non verrà meno e non si abbatterà,
finché non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.

Successivamente, come da tradizione di Comunità di Connessioni, ci siamo suddivisi in gruppi di lavori per approfondire i tanti spunti emersi e discuterne insieme.

25 novembre: “Protezione e Prevenzione. A che punto siamo ?

Come ogni anno, il 25 novembre si celebra la giornata internazionale dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne. Una ricorrenza molto sentita a livello globale e nazionale, ma sulla quale molte volte si sa davvero poco. Infatti la data del 25 novembre non è stata scelta casualmente, bensì dietro di sè cela una storia profonda. Occorre tornare indietro di qualche anno per scoprirla. Il 25 novembre del 1960, tre sorelle e attiviste: Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal furono assassinate dagli agenti del dittatore Rafael Leonidas Trujillo mentre si stavano recando in carcere. Questo terribile assassinio fu giustificato dagli aguzzini come un incidente, ma fu subito chiaro all’opinione pubblica che si trattava di un delitto. Le tre sorelle passarono alla storia come “Las Mariposas”( le farfalle) per il coraggio dimostrato nel combattere la dittatura e nella difesa dei diritti delle donne. Qualche anno dopo questo avvenimento, esattamente il 25 novembre del 1981, ci fu il primo incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericano e caraibiche, nel quale si decise di tenere questa giornata come data simbolo della lotta contro le violenze sulla donna. Nel linguaggio comune, si è soliti dare e associare molte definizioni al concetto di “violenza contro le donne”, come ad esempio: violenza di genere, violenza sessuale, stalking, disuguaglianza di genere, discriminazione di genere, ecc… ma nel corso degli anni si sono susseguiti molti modi per descrivere e definire il concetto di “violenza contro le donne” in maniera normativa e analitica. La definizione storica è contenuta nella Risoluzione adottata dall’assemblea generale ONU il 19 dicembre del 1993, n. 48/104. L’ ART.1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, cita che l’espressione “violenza contro le donne sta a significare ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata”. Mentre nell’ART. 3, leggiamo che la violenza contro le donne riguarda principalmente: 

  • La violenza fisica, sessuale e psicologica che si produce nella famiglia, inclusi i maltrattamenti, gli abusi sessuali delle bambine in ambito familiare, le violenze legate alla dote, lo stupro coniugale, la mutilazione genitale femminile e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza perpetrata da altri membri della famiglia e la violenza legata allo sfruttamento
  • La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità in generale, compreso lo stupro, l’abuso sessuale, le molestie e l’intimidazione sul posto di lavoro, nelle istituzioni educative e altrove, la tratta delle donne e la prostituzione forzata
  • La violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o tollerata dallo Stato, ovunque si manifesti.

La più recente definizione della “violenza contro le donne”, invece è contenuta nella Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 del Consiglio d’Europa per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, la quale è stata poi ratificata dall’Italia. L’ART. 3 recita che con l’espressione “violenza contro le donne si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli attti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenza di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata”. Infine l’Unione Europea nella direttiva 2012/29/UE, sulle Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, al punto 17, approfondisce il discorso e ci da una definizione di “violenza di genere”: “Per violenza di genere si intende la violenza diretta contro una persona a cause del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale, la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti “reati d’onore”…”. Quindi la violenza contro le donne si classifica come giuridicamente rilevante e come abbiamo potuto notare assume varie forme: fisica, psicologica, economica e sessuale, cui sono associate condotte e azioni che le concretizzano, a cui sono correlate ipotesi di reato e norme penali in base alle varie tipologie di violenza.

Nel 2019, 111 donne sono state uccise per delitti “di genere” e l’88,3% di esse sono state uccise da una persona conosciuta. Secondo l’Istat, il 49,5% dei casi dal partner attuale, corrispondente a 55 donne, l’11,7%, dal partner precedente, pari a 13 donne, nel 22,5% dei casi (25 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nel 4,5% dei casi da un’altra persona che conosceva (amici, colleghi, ecc.) (5 donne). Il numero verde 1522 è stato il servizio dedicato al supporto e aiuto per vittime di violenza o stalking durante la pandemia ed ha registrato aumenti significativi tra il primo e il secondo semestre del 2020. I dati confermano che nel quinquennio 2016-2021 gli omicidi e le violenze a discapito delle donne sono aumentati rispetto al quinquennio precedente, a differenza delle stesse statistiche per il sesso maschile che si sono mantenute costanti. Sono aumentati, fortunatamente, il numero di donne che hanno chiesto aiuto e le campagne di sensibilizzazione promosse dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri sui canali televisivi e social che hanno rafforzato e diffuso il messaggio dell’importanza della richiesta di aiuto nei casi di violenza. Considerando i dati aggiornati, è possibile confermare la loro rilevanza e utilità. https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne

Nel 2020, 15.837 donne, secondo i dati Istat, hanno concordato con un Centro antiviolenza e iniziato un percorso personalizzato di uscita dalla violenza. Tra le donne che hanno iniziato questo percorso, la presa in carico per mese, in ordine decrescente, si è distribuita con le seguenti percentuali:10,1% a gennaio, 9,3% a settembre, 9,2% a luglio, 8,7% a febbraio, 8,7% a giugno, 8,2% a maggio, 7,9% a ottobre, 7,4% ad agosto, 6,8% ad aprile, 6,7% a novembre, 6,4% a dicembre, 5,6% a marzo, 5,0% non risponde. Nello specifico delle classi di età, le donne prese in carico nel 2020 avevano per il 29,4% tra i 40 e i 49 anni, 26,9% tra i 30 e i 39 anni, 18,4% tra i 16 e i 29 anni, 16,9% tra i 50 e i 59 anni, 5,6% tra i 60 e i 69 anni, 2,5% 70 anni e più, 0,4% meno di 14 anni. Le violenze riscontrate tra le donne prese in carico dai centri antiviolenza nel 2020 sono: violenza psicologica nell’89,3% dei casi, violenza fisica nel 66,9%, minacce nel 49,0% dei casi, violenza economica nel 37,8% dei casi, altra violenza sessuale nel 12,7% dei casi, stupro nel 9,0% dei casi, altre forme di violenza secondo la Convenzione di Istanbul nel 2,1% dei casi, matrimonio forzato o precoce nell’1,4% dei casi, aborto forzato nello 0,7% dei casi, mutilazione genitali femminili nello 0,1% dei casi. Le donne che si rivolgono ai centri raccontano di esperienze in cui hanno subito una o più violenze. Nel 2020, in particolare: il 16,3% ha subito una violenza, il 10,5% due violenze, il 20,1% tre violenze, il 26,3% quattro violenze, il 26,8% 5 e più violenze. I Centri antiviolenza offrono numerosi servizi alle donne vittime di violenza: il 97,1% offre ascolto, l’82,8 % offre accoglienza, il 53,6% offre supporto e consulenza psicologica, il 46,3% offre supporto al percorso giudiziario e consulenza legale, il 37,2% offre orientamento e accompagnamento ad altri servizi della rete territoriale, il 18,0% offre sostegno all’autonomia, il 14,2% offre un percorso di allontanamento, il 12,6% offre pronto intervento e messa in sicurezza fisica, il 12,3% offre orientamento lavorativo, il 10,1% offre sostegno alla genitorialità, l’8,9% offre supporto per i figli minorenni, il 9,1% offre supporto e consulenza alloggiativa, il 3,1% offre mediazione linguistico-culturale, il 2,2% offre altri servizi a donne straniere, rifugiate e richiedenti asilo. https://www.istat.it/it/archivio/263647

In piena pandemia, nel 2020, le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%). Il boom di chiamate si è avuto a partire da fine marzo, con picchi ad aprile (+176,9% rispetto allo stesso mese del 2019) e a maggio (+182,2 rispetto a maggio 2019), ma soprattutto in occasione del 25 novembre, la giornata in cui si ricorda la violenza contro le donne, anche per effetto della campagna mediatica. Nella settimana tra il 23 e il 29 novembre del 2020, le chiamate sono più che raddoppiate (+114,1% rispetto al 2019). La violenza segnalata quando si chiama il 1522 è soprattutto fisica (47,9% dei casi), ma quasi tutte le donne hanno subito più di una forma di violenza e tra queste emerge quella psicologica (50,5%). Rispetto agli anni precedenti, sono aumentate le richieste di aiuto delle giovanissime fino a 24 anni di età (11,8% nel 2020 contro il 9,8% nel 2019) e delle donne con più di 55 anni (23,2% nel 2020; 18,9% nel 2019). Riguardo agli autori, aumentano le violenze da parte dei familiari (18,5% nel 2020 contro il 12,6% nel 2019) mentre sono stabili le violenze dai partner attuali (57,1% nel 2020). Nei primi 5 mesi del 2020 sono state 20.525 le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza (CAV), per l’8,6% la violenza ha avuto origine da situazioni legate alla pandemia (es. la convivenza forzata, la perdita del lavoro da parte dell’autore della violenza o della donna). In corrispondenza del lockdown di marzo 2020, i Centri antiviolenza hanno trovato nuove strategie di accoglienza. Essenziale è stato il ruolo della rete territoriale antiviolenza per supportare i Centri nel loro lavoro. I CAV hanno supportato le donne tramite colloqui telefonici, posta elettronica e con colloqui in presenza nel rispetto delle misure di distanziamento. Per quanto riguarda le Case rifugio, nei primi 5 mesi del 2020 sono state ospitate 649 donne, l’11,6% in meno rispetto ai primi 5 mesi del 2019. Le Case hanno, infatti, segnalato più difficoltà dei CAV a organizzare l’ospitalità delle donne e a trovare nuove strategie. Per il 6% delle donne accolte, le operatrici hanno segnalato che è stata la pandemia ad avere rappresentato la criticità da cui ha avuto origine la violenza. Il numero delle chiamate valide sia telefoniche sia via chat nel primo trimestre 2021 è continuato ad aumentare, 7.974 chiamate valide e 4.310 vittime, rispetto al primo trimestre del 2020 (+38,8%), ma lontano dal picco del secondo trimestre 2020 (12.942 chiamate valide). Ancora in aumento la quota delle richieste di aiuto tramite chat, che costituiscono il 16,3% delle modalità di contatto (erano pari all11,5% nel primo trimestre del 2020). Tra i motivi che inducono a contattare il numero verde sono in netto aumento le chiamate per la “richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza” e le “segnalazioni per casi di violenza” che insieme rappresentano il 48,3% (3.854) delle chiamate valide. Nel periodo considerato, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, esse sono cresciute del 109%, mentre diminuiscono le chiamate per avere informazioni sul numero 1522 (-37,6%). Le persone che hanno chiamato per la prima volta il 1522 nel primo trimestre 2021 sono l’84,8%. Tra le vittime questo dato raggiunge l’88,1%. Le vittime che hanno contattato il 1522 hanno segnalato di avere subito più tipologie di violenze nel 62,1% e nel 37,9% dei casi la violenza fisica. https://www.istat.it/it/archivio/258897 

Il monitoraggio realizzato da ActionAid 2021, “Cronache di un’occasione mancata. Il sistema antiviolenza italiano nell’era della ripartenza”, contiene una panoramica dell’impegno delle Istituzioni nazionali e regionali nel precedente triennio per rafforzare il sistema italiano antiviolenza. L’analisi dei dati raccolti nel 2021 conferma quanto rilevato lo scorso anno. A distanza di 12 mesi, il sistema antiviolenza italiano risulta essere ancora caratterizzato da frammentarietà programmatica, finanziamenti esigui e discontinui, disparità regionali e governance debole. https://actionaid.imgix.net/uploads/2021/11/Monitoraggio-antiviolenza_2021.pdf

Il Piano nazionale antiviolenza da adottare per il triennio 2021-2023, presentato alla Cabina di regia il 20 luglio 2021 e giunto in Conferenza Unificata il 3 novembre, a un anno dalla scadenza del Piano 2017-2020, non è ancora stato reso operativo.

Il dossier ActionAid 2021 evidenzia che le Regioni (escluse le province di Trento e Bolzano) fino al 15 ottobre 2021 hanno erogato alle Case rifugio e ai Centri antiviolenza il 74% dei fondi nazionali antiviolenza delle annualità 2015-2016, il 71% dei fondi dell’anno 2017 (che erano 12,4 milioni di euro); il 67% di quelli previsti per il 2018 (19,6 milioni); il 56% dei soldi disponibili nel 2019 (29,4 milioni) e soltanto il 2% dei 27,5 milioni messi a disposizione nel 2020.

L’indice di trasparenza applicato agli atti di programmazione, assegnazione e liquidazione dei fondi statali antiviolenza per il 2019 ha evidenziato un miglioramento della trasparenza delle Regioni, nella gestione dei fondi statali, pari a 10 punti di percentuale rispetto a quanto registrato nel 2020.

In risposta alle nuove esigenze imposte dalla pandemia, ad aprile 2020 le istituzioni nazionali, in particolare la Ministra per le Pari opportunità e il Parlamento, si sono attivati per rispondere ai nuovi bisogni (dei Centri antiviolenza e della Case rifugio) dettati dall’emergenza sanitaria e sono stati messi a disposizione i seguenti fondi: 

-10 milioni di euro, stanziati nel 2019 per l’attuazione del Piano strategico antiviolenza e trasferiti con procedura accelerata alle Regioni ad aprile 2020 per far fronte primariamente alle spese connesse all’emergenza sanitaria;

– 5,5 milioni di euro, messi a bando il 29 aprile 2020 per il finanziamento di interventi urgenti per il sostegno alle misure adottate dalle strutture di accoglienza durante l’emergenza sanitaria da COVID 19, di cui 4,5 mln da riservare alle Case rifugio e 1 mln ai Centri antiviolenza;

-3 milioni di euro, stanziati con il DL Cura Italia per far fronte alle spese connesse all’emergenza sostenute dalle Case rifugio;

-3 milioni di euro, per finanziare il reddito di libertà, introdotto dal DL Rilancio per intervenire a favore di donne che hanno subito violenza in condizioni di maggiori vulnerabilità a causa del Covid-19.

Per quanto riguarda l’utilizzo di tali risorse, a circa un anno e mezzo di distanza dal loro stanziamento, dalle informazioni rese disponibili dalle amministrazioni si rileva che:

a. dei 10 milioni trasferiti alle Regioni con procedura accelerata ad aprile 2020, secondo quanto indicato nelle schede programmatiche regionali, circa 2,5 milioni sono stati destinati alle spese connesse all’emergenza sanitaria;

b. il bando emanato il 29 aprile 2020 per coprire inizialmente le spese effettuate da CAV e CR nel periodo 1° febbraio 2020-31 luglio 2020, dato il perdurare della pandemia, è stato prorogato due volte per coprire i costi sostenuti dalle strutture fino al 31 gennaio 2021. Dai dati disponibili risulta che l’avviso ha permesso di erogare 300 contributi a 142 enti gestori di strutture. 

c. i 3 milioni stanziati dal DL Cura Italia nel marzo 2020 per far fronte alle spese straordinarie delle case rifugio sono stati ripartiti con DPCM solo il 13 novembre 2020 e trasferiti alle Regioni nel primo semestre del 2021. Al 15 ottobre 2021 delle risorse stanziate solo l’1% è stato liquidato alle Case rifugio a cui erano riservate;

La prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne sono i grandi assenti delle pianificazioni strategiche adottate a livello nazionale con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026. La prevenzione è inserita nel Piano nazionale antiviolenza 2021-2023 domandando, di fatto, al Dipartimento per le Pari Opportunità. 

Nel corso del 2021, il Dipartimento per le Pari Opportunità ha erogato 6 milioni di euro per la realizzazione di interventi di prevenzione e contrasto alla violenza in linea con le finalità previste da legge. In particolare, le risorse ripartite tra le Regioni con il DPCM del 13 novembre 2020, sono state programmate per: potenziare i servizi pubblici e privati di protezione; promuovere il sostegno abitativo e il reinserimento lavorativo; migliorare la presa in carico delle donne migranti e/o minori; garantire formazione e informazione; implementare progetti per uomini autori di violenza. 

Una nota positiva è l’introduzione del «Reddito di Libertà» per sostenere le donne nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, con uno stanziamento previsto di 3 milioni per l’anno 2020, rifinanziato anche per l’anno 2021 con ulteriori 2 milioni di euro, e anch’esso pensato per far fronte ai gravi effetti economici causati dall’emergenza sanitaria. Purtroppo è stato reso operativo a distanza di ben 15 mesi dalla sua approvazione, ovvero a luglio 2021. Il decreto attuativo firmato il 17.12.2020 è stato infatti pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo il 20 luglio 2021, mentre la circolare INPS è stata adottata l’8 novembre 2021. Nel dettaglio, la misura prevede l’erogazione di 400 euro mensili procapite erogabili per un massimo di 12 mesi a donne inserite in percorsi di fuoriuscita dalla violenza, debitamente certificati. Una valutazione approfondita della sua effettiva utilità potrà essere effettuata solo quando il reddito di libertà sarà attivato e pienamente a regime. https://servizi2.inps.it/servizi/CircMessStd/VisualizzaDoc.aspx?tipologia=circmess&idunivoco=13584

Infine, il Parlamento ha approvato un’ulteriore disposizione normativa, ovvero uno sgravio contributivo per le cooperative sociali che assumono a tempo indeterminato entro il 2021 donne inserite in percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Introdotta con il DL Ristori, tale misura, per cui è stato stanziato 1 milioni di euro, risponde al dato critico registrato dall’Istat a giugno 2020 e confermato poi dai dati definitivi pubblicati a inizio 2021, ovvero il significativo incremento della disoccupazione femminile causato dalla crisi pandemica. Lo sgravio contributivo è diventato operativo solo nel settembre 2021, in seguito all’emanazione della Circolare INPS n. 133 del 10 settembre 2021.

Dall’entrata in vigore del DL 93/2013, che ha posto le basi dell’attuale sistema antiviolenza, il Dipartimento per le Pari Opportunità ha destinato il 75% delle risorse allocate ad interventi di Protezione. Solo il 14% è stato programmato per la realizzazione di interventi di Prevenzione, il 2% è stato destinato ad attività rientranti nell’asse Assistenza e Promozione, mentre del restante 9% non sono disponibili informazioni.

La politica ha la responsabilità di attivare con urgenza politiche e strumenti indispensabili per promuovere un cambiamento socio-culturale che porti al raggiungimento sostanziale della parità di genere, permettendo così alle donne di esercitare pienamente il loro diritto di vivere una vita libera dalla violenza. Passi indietro non sono più accettabili e ritardi dovuti a oneri burocratici-amministrativi non sono più giustificabili. L’intera macchina amministrativa pubblica deve impegnarsi affinché il sistema antiviolenza operi regolarmente attraverso l’adozione di procedure agili e una gestione fluida dei fondi, affinché la violenza fisica e morale non si tramuti anche in “violenza burocratica” . Il dialogo strutturato e continuo tra la politica, l’amministrazione e i territori non può che rendere le politiche antiviolenza più efficaci e più rispondenti ai bisogni territoriali.

La pianificazione dei fondi ripartiti tra le Regioni per l’attuazione del Piano antiviolenza negli anni 2020 e 2021 ha evidenziato che gran parte delle risorse stanziate per contrastare la violenza è stata destinata ad attività di “Protezione”. 

Non bisogna dimenticare che la “Prevenzione”, la sensibilizzazione e l’educazione sono i pilastri per combattere a livello sociale e culturale la violenza contro le donne. Il messaggio mandato dalle tante panchine rosse sparse per le varie città italiane e non solo, simbolo di lotta contro la violenza di genere, può e deve diventare la bandiera di tutte le istituzioni. Azioni di prevenzione, di supporto all’autonomia abitativa delle donne o di inserimento lavorativo devono essere garantite così come case rifugio e centri antiviolenza devono essere accessibili a tutte le donne a prescindere dal luogo in cui risiedano. 

La prevenzione oggi si fa a partire dal mondo giovanile che sta cambiando e si oppone alla violenza, dalle consapevolezze che partono dal basso e dalla presa di coscienza che tante cose ancora devono essere cambiate. Il fatto che ancora ad oggi è pensabile, concreta e attuale la violenza maschile sulle donne fa riflettere su una serie di cose che devono essere inserite in una progettualità preventiva, rieducativa e morale.

Sicuramente si parte dalla presa di coscienza che la violenza di genere è il frutto di condizionamenti educativi errati. È possibile un cambiamento culturale non scambiando la violenza per amore. Il punto di partenza è l’assunto che la violenza sulle donne è primariamente una “questione maschile” e si presenta come la risposta più pesante, cruda e fatale della negazione di una soggettività femminile indipendente. Principio cardine deve essere la consapevolezza della parità dei sessi. Adulte e adulti consapevoli e coerenti, capaci di praticare il rispetto tra uomini e donne.

La violenza contro le donne è forse la violazione dei diritti umani più vergognosa. Essa non conosce confini né geografia, cultura o ricchezza. Fin tanto che continuerà, non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace. (Kofi Annan- Premio Nobel Per la Pace, nel 2001).

In conclusione si evidenzia la necessità e l’importanza di un piano strategico delle Istituzioni, nazionali e regionali, di una governance forte e continuativa che miri a diffondere la prevenzione e che garantisca protezione. È chiara l’esigenza di interventi in termini programmatici, procedurali e di risorse per creare una rete di supporto sempre più efficiente che non arrivi costantemente in ritardo.

La violenza sulle donne è un atto vile e codardo che va condannato non solo il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ma in ogni singolo momento della nostra esistenza.

Coordinamento Nazionale 

Giovani delle Acli

TUTTA COLPA DEL CASO .Storia di una volontaria rassegnata che aveva riposto le speranze in un cassetto

Ciao, mi chiamo Rebecca ho 23 anni, vivo in Calabria da sempre e sono una ragazza solare, un po’ introversa, laboriosa, sensibile e con un debole per i film, le serie tv e il buon e vecchio rock; nella vita studio e a piccoli passi cerco di realizzare il mio sogno. Due sono le cose che mi contraddistinguono, il sorriso e l’empatia, due forze che ho fatto fatica a volte ad accettare, ma che, nel corso del tempo mi hanno portato sulla strada della solidarietà e del volontariato, perché ho sempre pensato che in momenti difficili, un semplice sorriso o un abbraccio silenzioso riescano a dare conforto più delle parole.

Questa non è la classica storia di una normale volontaria del servizio civile, e voi adesso vi chiederete “perché, tu cos’hai di così speciale?” io personalmente, oltre ad essere a tratti euforica e a tratti silenziosa, sono sempre la ragazza di 23 anni sopra descritta, ciò che qui ha qualcosa di particolare è il modo in cui è avvenuto il mio ingresso nel mondo del servizio civile.

Partiamo. Nell’ottobre del 2019 decido, su consiglio di un’amica di famiglia, di provare a fare domanda per il servizio civile. Leggendo un po’ di qua e di la’ mi sono detta “ma si, dai , perché non provi, è una nuova esperienza che può darti tanto, può aiutarti a crescere, ad imparare cose nuove e forse ad uscire un po’ da quel tanto accogliente,quanto a volte isolato, guscio che ti sei cucita sù. E così sia! Apro il computer, vado sul sito del servizio civile, compilo tutti i campi obbligatori, faccio una scrematura dei progetti che più mi attiravano e arrivo alla scelta dei tre vincitori; così, con quel po’ di tristezza per non poter farli tutti, faccio la mia ultima scelta e premo il tasto invio.  

E da qui ha inizio una relazione che sa a volte damore, passione e odio, quella tra me e il caso. Sì proprio quel tipo di caso che può ribaltare in bene o in male (dipende dai punti di vista) tutti i tuoi piani, e questa volta mi ha voluto mettere alla prova, perché? Semplice, avevo sbagliato a scegliere il progetto e invece di cliccare sul nome del vincitore, ho premuto il nome del secondo arrivato. Già, medaglia d’argento, da un lato meglio, perché l’oro non mi dona affatto. Così, quando l’ho scoperto mi sono detta “ah, bella storia e adesso? Adesso niente, mi rimbocco le maniche, studio per bene e cerco di concentrarmi sul colloquio, cerco di fare bella impressione, insomma cerco di essere il più possibile me stessa”. E così ho fatto!

Passa un mese e il tanto atteso giorno arriva! Sveglia presto, mi preparo, un saluto veloce al cane, esco di casa, musica nell’orecchie, prendo il pullman e finalmente arrivo a destinazione. PANICO! Eh be sì ci sta unpo’ di ansia, però a esser sincera, se oggi ci penso, quella volta non ero tanto preoccupata, ero più carica e sicura del solito,  già,  più sicura… forse era meglio esserlo un po’ meno.

Purtroppo non mi scelgono. Ovviamente ci sono rimasta male e ho iniziato a farmi tante domande sul perché, su cosa avessi sbagliato e su cosa avrei dovuto lavorare per fare meglio poi. E qui so che vi starete ponendo un’altra domanda “ma se non sei stata presa, perché ti stiamo leggendo?”  anche questa volta, per la seconda volta è tutta colpa del caso. E così dal nulla, dopo mesi passati senza sperarci più, a Febbraio mi arriva un’email dove semplicemente venivo informata di un eventuale subentro per il progetto a cui avevo fatto domanda. Appena ho letto questa email non riuscivo a crederci, ero così stranita ma allo stesso tempo così calma e concentrata da prendere il telefono e chiamare la sede centrale per fare chiarezza. Dopo circa 20 minuti di telefonata e una nuova email inviata, era fatta, ero ufficialmente o quasi, burocrazia a parte, una volontaria del servizio civile presso le ACLI di Cosenza.

E come si suol dire “non c’è due senza tre”, il nostro ormai miglior amico caso fa il suo ingresso trionfale e PANDEMIA. Ancora una volta le mie speranze svaniscono, le ho immaginate lì, su un treno che sta partendo e io che le rincorro disperatamente senza poterle raggiungere.                          

Ma proprio quando meno te l’aspetti, o meglio proprio il giorno in cui p accadere di tutto, giorno venerdì 17 Aprile, ricevo una telefonata dalla responsabile del progetto, la quale, senza giri di parole, mi informa che giorno 20 Aprile avrei preso effettivamente (io direi pure FINALMENTE) servizio.  E così è stato, dopo tre giorni, Lunedì 20 prima riunione online su Skype, ovviamente io spaventatissima, anche perché stavo entrando in un gruppo già formato e io, che ero sempre la timida della classe, non sapevo se sarei riuscita a far sentire la mia voce, le mie idee; in quel momento non sapevo nulla! Però questa volta sono stata fortunata, ha lavorato bene il caso, perché ho trovato un team unico e fantastico, dalla responsabile Teresa, alle colleghe Sara, Placidia ed Elisa, super carine, gentili e disponibili, che mi hanno accolto benissimo e da un piccolo schermo sono riuscite ad esprimere tutto il loro calore, che io ho percepito e tanto tanto apprezzato; grazie ragazze. 

Io solitamente non credo nel caso, ho sempre pensato che siamo noi a scegliere chi siamo, che tutto dipenda dalle nostre azioni, che la vita è una sorta di catena dove ogni anello rappresenta una conseguenza del nostro operato, ma questa volta mi sono dovuta ricredere, e direi pure, dalla “scelta sbagliata” del progetto (ora non poi così sbagliata) al gruppo di giovani volontarie tutto al femminile, tutto sommato devo solo dire grazie caso, questa volta hai giocato bene le tue carte.  Ora ti accolgo nuovo amico, ma con un pizzico di titubanza, anche perché siamo solo nella fase di decollo di questo percorso, iniziato in un annoche verrà ricordato come l’anno del COVID” e “dell’andrà tutto bene”. Insomma saranno dodici mesi interessanti ma soprattutto in compagnia dei tuoi giochetti, ti sento vicino. Chissà, “caso” che souvenir porteraiquesta volta.  

 

 

Servizio civile Acli Cosenza

¿Hola, qué tal? ¡Espero bien!

Ebbene sì, scrivo dalla Spagna falcidiata come il Nostro amato Stivale da un UFO subdolo, perché di un Unidentified Flying Object si tratta, di questo essere non essere che si prende vite e se le porta via.

Mi chiamo Fabio, vengo da Milano e sono uno studente Erasmus+ e aclista a Saragozza per la tesi del master. Sono arrivato in Spagna lo scorso settembre per fare esami del primo semestre e lo scopo era di lavorare sulla tesi durante la seconda parte dell’anno, ma qualcosa sta rallentando tutti i piani e non solo i miei.

Riavvolgendo il nastro, weekend del 6-8 marzo, l’Italia già versava in una situazione non facile, ma la Spagna tuttavia aveva ancora pochi casi isolati (circa 400 a Madrid) concentrati nelle grandi città turistiche. La situazione pareva sotto controllo e la vita trascorreva del tutto normalmente, tant’è che con miei compagni Erasmus eravamo in gita a Madrid per l’appunto; tornati a Saragozza, la settimana seguente arrivano notizie non confortanti da Madrid e dalla Catalogna, soprattutto per noi italiani a conoscenza di ciò che accadeva ai nostri cari nel Belpaese: in meno di una settimana la situazione precipita, compaiono servizi televisivi che immortalano gente con mascherine, cosa che getta nel panico la popolazione, tale e quale all’effetto ottenuto in Italia, sembrava un REPLAY, ma accelerato.

Infatti, venerdì 13 marzo, appena tornato a casa dall’università per l’ora di pranzo (h14.00 in quanto si trasla tutto di 1-2 ore normalmente), entra di corsa in casa il mio coinquilino catalano dicendo: “¡Ojo! ¡La televisión, Sanchez!” frase che penso ricorderò per parecchio tempo dalla facile comprensione soprattutto perché qui si usa ojo come noi a Milano ocio, nel contesto “attenzione!”. Potrebbe essere superfluo ricordare che Sanchez è il capo del governo, ma siccome se ne parla quotidianamente come ora del Presidente del Consiglio Conte, è importante avere le idee ben chiare. In pratica ha dichiarato el estado de alarma (“stato d’allarme “) a partire dalle h15.00 in tutta Spagna: si può immaginare il subbuglio creatosi nell’arco di un’ora per le strade, simile a quello visto ai telegiornali italiani, ma con la differenza che qui a Saragozza mi è parso più ordinato e controllato, forse avendo visto l’esempio italiano in precedenza.

Dopo questo inizio con trambusto la situazione si è calmata, le giornate passano tranquille con tre appuntamenti fissi sui balconi: alle 18.00, alle 20.00 e alle 21.00. Il motivo del primo orario cambia di giorno in giorno, ma non è molto seguito dai saragozani. Invece il motivo delle 20.00 è l’applauso alle forze dell’odine, agricoltori, supermercati e reparti sanitari; la città si riaccende improvvisamente e si sentono non più solo sirene di ambulanze, ma sirene a festa della Guardia civil e della Policia e interminabili applausi con musiche folkloristiche spagnole, tutto per anche 20 minuti ininterrottamente. Per ultimo alle 21.00 la gente si affaccia con pentole, padelle e semplicemente fa il maggior chiasso possibile, come alla Corrida di Gerry Scotti.

È un periodo di continui cambiamenti, le notizie buone mancano, ma arriveranno: la fiducia degli spagnoli nella comunità scientifica e sanitaria è notevole ed è percepibile una maggior responsabilità sociale rispetto all’Italia; credo sia anche questo il motivo per cui il governo non è passato ancora al secondo livello di stato d’allarme (ci sono 3 gradi di intensità), però a Saragozza sono stati in grado di costruire un ospedale da campo con 400 posti letto in terapia intensiva in 10 giorni per un totale di 52000 mq. Inoltre, la situazione in Aragona è una delle migliori della Spagna, tant’è che gli ospedali hanno ancora un 30% dei posti letti liberi e fruibili per COVD_19.

Questa battaglia la si vince tutti assieme con la città, che come dicono qui in uno spot: non vede l’ora di sentirsi calpestata nuovamente dalle migliaia di persone che quotidianamente popolano le sue strade.

¡VOLVEREMOS!

Fabio Legnani

il compleanno virtuale di nonno Beppe

Oggi, 22 marzo 2020 il Nonno Beppe compie 79 anni, credo.

Il compleanno è stato festeggiato su un gruppo Whatsapp famigliare.

Eravamo io e mio fratello Leo, mamma e Andre, zii coi cugini e loro, Nonna e Nonno.

I primi cinque minuti li abbiamo passati a cercare di far capire a nonna intanto che era il compleanno di nonno e non il suo; a lei piace tanto stare al centro della conversazione, e secondo, che doveva mettere il cellulare più lontano dall’asticella dei suoi occhiali, perchè sinceramente delle sue rughine a zampa di gallina intorno agli occhi e del suo orecchio non ce ne fregava molto.

Abbiamo parlato del più e del meno, a tratti, perché capivamo poco. Quasi detto niente del Corona. Nonna Martina si è presentata elegante, con una camicia bordeaux e una giacca di velluto nero floreale, un rossetto rosso e i capelli appena fatti. Ovviamente con un flûte di spumante già in mano, come succede quando ci accoglie ad ogni compleanno che festeggiamo in quella casa almeno da quando sono nato. Ogni compleanno, di tutti.

Nonno fa le sue classiche battute e ringrazia col cuore in mano anche per questo gesto, come ogni volta. Ho visto poche persone essere così sincere per l’affetto che provano nei confronti della propria famiglia.

Nonno Beppe si commuove leggermente ad ogni suo micro-discorso di ringraziamento ogni volta che lo festeggiamo.

È coraggioso.

Ci vuole bene davvero.

Tra battute sul fatto che è solo con nonna e che si sopportano tanto quanto basta il minimo per farli urlare, brindiamo.

Noi con due barattoli a mo’ di bicchiere con acqua del rubinetto, mamma con acqua, Andre con grappa, i ragazzi con vino e acqua, i nonni con i flûte di prosecco.

Cin.

Sui saluti nonna dice:

“Avete visto la ta..lata?”

Noi:

“Ehh?”

Ribadisce:

“Avete visto la tavolata?”

E per miracolo riesce a girare la telecamera inquadrando i nostri posti a tavola con loro. Era apparecchiato tutto.

Perfetto, come vuole lei, se no non va bene, per nonno, per il suo Beppe.

I fiori come centro-tavola, tutto simmetrico, preciso: tovaglioli ripiegati, doppie posate, bicchiere per l’acqua, bicchiere per il vino e per lo spumante, doppio piatto e via discorrendo; per ognuno di noi, ma vuoto.

Io non credo molto nell’amore in tarda età, penso sia più una sopportazione maniacale.

Ma quel che è certo, è che ho avuto una strizzata al cuore che solo ste robe mi sanno dare.

Pure mia cugina, anche se forse sono stati i pixel sgranati a farmi vedere ciò che in realtà mi stavo immaginando.

Comunque vada, io quando e se, sarò vecchio, voglio essere come mio nonno.

Auguri Beppe

 

(Servizio Civile Modena  Romeo Cuoghi)

E, senza forse, ci sentiremo ancora più fortunati

La mia prima volta a Lisbona è stata nell’agosto del 2011. Ero in compagnia delle mie amiche dell’università e ricordo ancora la sensazione di “casa” che ho provato appena scesi dalla metropolitana e poggiai il piede sulla calçada. Respiravo per le strade l’aria della celebre saudade, quella nostalgia letta sui libri per ciò che era stato perduto incatenando il popolo portoghese al passato e che, paradossalmente, aveva il potere di ricongiungersi con il presente. Dal noi dei libri all’io della mia vita, tutto quello che avevo nascosto tra i pensieri sembrava finalmente trovare una forma. È stata questa la percezione che mi ha lasciato il segno e che mi ha accompagnato ad ogni mio ritorno in quella città.

Alla domanda “Ma perché proprio Lisbona?” non tutti comprendono le mie motivazioni. Come si spiega la nostalgia, controversa e naturale allo stesso tempo, di qualcosa di perduto o che, a volte, non è stato mai vissuto?

Eppure credo che in questo clima dove le nostre vite sono state stravolte, forse un po’ tutti percepiamo – ognuno a modo suo – una sorta di saudade. Delle nostre vecchie abitudini e dei nostri affetti, ripensando anche a quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, alle parole che avremmo potuto dire e non abbiamo detto.

Quanti di noi avevano progettato viaggi, incontri, abbracci, scadenze, la vita. E anche rimandato qualcosa, perché nella convinzione di avere di tutto il tempo.

Quante persone, come me, programmavano le festività di Pasqua. Già immaginavo il viaggio in treno, i giorni precedenti sotto i portici di Bologna alla ricerca di giocattoli da regalare ai miei nipoti, loro che avrebbero recitato la poesia imparata a scuola con tutta la famiglia entusiasta di ascoltare, gli incontri con le mie amiche e magari anche la passeggiata lungo il mare di Napoli, la seconda cosa che desidero vedere ogni qual volta torno alle mie radici.

Immagini che non potranno concretizzarsi, almeno per ora, ma che lasciano spazio ad altre immagini, anche nuove: tutte le cose che vorrò e che tutti noi vorremo fare appena ci sarà la possibilità.

Io voglio sperare che questa sorta di saudade, che forse proviamo, possa insegnare qualcosa a noi che avremo la fortuna di poter riabbracciare i nostri cari e tornare alla nostra normalità. Senza retoriche, ma con consapevolezze, ripensando alla nostra scala di priorità, dando il giusto valore al tempo e imparando da questo presente che diventerà passato per vivere diversamente il nostro futuro.

Passato, presente e futuro costituiscono la linea del tempo, e su di esso mi viene in mente il pensiero del filosofo francese Henri Bergson: c’è il tempo oggettivo, scandito dalle lancette di un orologio, schematico e regolare, e c’è il tempo soggettivo, dettato dalle percezioni con cui viviamo ogni singolo attimo, ampliandone o riducendone la durata.

Una parte di noi, imparando o provando a gestire il tempo oggettivo, potrebbe aver dimenticato quello soggettivo, costituito anche dai ricordi e emozioni della nostra vita, che ci lascino un sorriso o meno.

Forse, stavolta, vivremo diversamente un gesto o una parola, concentrati solo sul tempo soggettivo, senza pensare a quello oggettivo che scorre e non dando nulla per scontato.

Forse, stavolta, vedremo le tonalità di grigio tra il bianco e il nero.

Forse, stavolta, accoglieremo anche ciò che respingiamo e saremo più coraggiosi.

Forse, stavolta, impareremo a valorizzare ciò che questa saudade ci sta raccontando.

Forse, così, troveremo un senso a tutto ciò che ci sta capitando.

Perché nella nostra solitudine non siamo davvero soli.

Inevitabilmente qualcosa non sarà come prima e, senza forse, ci sentiremo ancora più fortunati.

Rosa De Angelis – Giovani delle Acli Bologna

#iorestocalmo: paura e ansia ai tempi del Covid-19

#iorestocalmo: è solo una piccola modifica dell’ormai diffusissimo #iorestoacasa, eppure l’hashtag così modificato compare nelle didascalie di soli quattro post su Instagram, contro il milione del fratello maggiore. Ma perché ricordarci di stare calmi è, a mio parere, ancora più importante che ribadire di stare a casa?

Sono Margherita Musco, una studentessa universitaria di 23 anni: nel 2018 mi sono laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche e ora sto per concludere il mio percorso di studi in Psicologia Clinica e Neuropsicologia nel Ciclo di Vita all’Università di Milano Bicocca. Ho deciso di condividere con voi un po’ di quello che ho imparato in questi anni su paura e ansia per invitarvi a riflettere e a trasformare la riflessione in un’azione concreta (questo con l’aiuto di un “esperto” del respiro).

In questo momento storico senza precedenti, infatti, l’incertezza pervade ogni aspetto della nostra vita pubblica e privata e favorisce una forte reazione emotiva, ingigantita dalle modalità attuali di diffusione delle notizie (in primis, i social media): la situazione in cui siamo ci fa senza dubbio paura e genera in noi un’ansia difficilmente gestibile, che rischia di avere effetti controproducenti sulla nostra capacità di fronteggiare la diffusione del contagio, oltre che sul nostro benessere psicofisico.

Ma quando parliamo di paura e ansia, di cosa stiamo parlando? Qual è la differenza tra le due?

Da una parte abbiamo la paura: essa è un’emozione primordiale e immediata causata da un pericolo esterno chiaramente riconosciuto dal soggetto, con una durata limitata nel tempo (quando il pericolo viene meno, essa si estingue). Dall’altra parte, invece, abbiamo l’ansia: lo psichiatra premio Nobel Eric Kandel la definisce come una risposta normale e innata alla minaccia (alla persona, all’autostima) o all’assenza di persone o oggetti che assicurano e “significano” sicurezza. Un moderato livello di ansia è utile per reclutare tutte le risorse in proprio possesso, ma a livelli estremi diventa controproducente e dannosa per la salute psichica e fisica.

Ansia e paura condividono alcuni aspetti, ma si differenziano per due caratteristiche principali: lo stimolo scatenante e la dimensione temporale. Infatti, la paura è scatenata da uno stimolo contingente, specifico e ben definito, mentre l’ansia è più spesso una situazione generica di apprensione rispetto a situazioni nuove o pericoli futuri poco definiti. Quale delle due reazioni è dunque maggiormente associata alla situazione attuale? Entrambe. Infatti, non appena le notizie sulla diffusione del virus e sul suo grado di letalità hanno iniziato a diffondersi, la prima reazione di molti di noi è stata una reazione di paura: in primis paura per noi stessi e per la nostra salute, ma anche paura per i nostri cari. In un secondo momento, la paura ha lasciato il posto ad una sensazione pervasiva di incertezza e instabilità, che potremmo definire come ansia. Ma perché reagiamo in modo così debilitante di fronte a questa nuova minaccia? Perché essa tocca moltissimi aspetti della nostra vita, anche aspetti che raramente vengono messi così tanto in discussione: la salute, l’economia, la libertà personale, le modalità di comunicazione, la socialità, le abitudini. Ci sentiamo in balia di qualcosa che è molto più grande di noi, che nessuno riesce a controllare, ed è praticamente impossibile dimenticarsi di ciò che stiamo vivendo, tanto che l’ansia è diventata una compagna perenne delle nostre nuove vite casalinghe.

Cosa possiamo fare, quindi, per combatterla? Ho chiesto ad Alessandra di Prampero, insegnante di Yoga a Milano, se ha qualche consiglio pratico da darci:

“Il respiro è profondamente correlato ai nostri stati d’animo: quando siamo in un momento di ansia e/o stress, tendiamo a fare dei respiri corti con i muscoli della parte alta del torace continuando a mandare al corpo il messaggio che c’è un pericolo che ci minaccia. Ma così come lo stress agisce sul nostro respiro, allo stesso modo noi lavorando sul respiro possiamo avere un influsso sul nostro stato d’animo e diminuire la nostra risposta ansiosa, interrompendo il circolo vizioso.

Di seguito quindi vi propongo un piccolo lavoro con il respiro, la cui intenzione è di espandere nuovamente il respiro nella schiena. Per lavorare sul respiro è utile pensare che in realtà non c’è niente che dovete fare. Non è necessario fare profonde inspirazioni o espirazioni. Dovete solo lasciare andare contratture, abitudini errate e lasciare libere di muoversi alcune parti del corpo, dove abitualmente non sentite il respiro.

Esercizio:

sedetevi a gambe incrociate vicino al muro (se necessario sedetevi su un piccolo cuscino) e poi mettete un grande cuscino tra la vostra schiena e il muro. Il cuscino vi serve per divenire consapevoli della vostra schiena. Iniziate respirando normalmente per un paio di respiri, poi continuate a respirare normalmente, ma iniziate a portare l’attenzione al contatto tra la vostra schiena e il cuscino. Adesso rilassate l’addome e se vi è più facile espirate con la bocca aperta. Sentite se percepite del movimento nella parte bassa della schiena, intorno al sacro, quando respirate. Rimanete un po’ all’ascolto di quella parte della schiena, poi risalite e portate l’attenzione al respiro nella zona lombare. Rimanete lì e poi salite ancora un altro po’, portando attenzione alla parte posteriore inferiore del vostro torace, intorno ai vostri reni. E poi risalite ancora, portando attenzione al respiro nella zona delle scapole e delle spalle.

Alla fine, quando siete risaliti con la vostra attenzione lungo tutta la colonna vertebrale, rimanete all’ascolto e percepite tutta la vostra schiena che respira contro il cuscino. E prendete consapevolezza del vostro stato interiore, se è cambiato qualcosa.

Non abbiate fretta e non spingete apposta il respiro dietro, lasciatevi semplicemente andare nel supporto del respiro nella vostra schiena…”

#iorestoacasa #iorestocalmo #acliminsiemesipuò #viciniadistanza

Margherita Musco

(GA Milano)

Eccoci. Come quella volta che avremmo potuto farlo.

Ho perso i 65 anni di mio papà, appuntamento telefonico della mia domenica.

Ho perso i 60 anni di matrimonio dei miei nonni. Non li sento da molto, da quando il 14 febbraio mi hanno chiamato pensando che fosse il mio compleanno. Ma non lo era.

Perderò a breve  i 55 anni di mamma, quella mamma che non chiamo mai, ci sentiamo solo per messaggio mentre, tra un minuto e l’altro che separa alle nostre distanze, cuce le mascherine per gli ospedali della mia terra. Oh, la mia terra. Mia come dice il mio cuore, mia come dice il mio sangue, degli altri come dice ormai il mio accento perduto.

Perderò la Pasqua, perderò Pasquetta. Non ricordo da quanto tempo non organizzo, non partecipo ad una Pasquetta.

Ricordo a mala pena la libertà della festa, delle occasioni. Della liberazione del 25 aprile, del 1 maggio, feste per tutti noi.

Ricordo pochissimo la spensieratezza degli aperitivi programmati e delle cene spensierate, avvenuto per caso, nel caso dei nostri tempi scanditi da agende e treni e bus e eventi. Ma quali eventi?

Eventi di lavoro.

Sento, in queste quattro mura, il calore dei miei colleghi. Sento la loro gratitudine, il loro supporto, la loro estrema bellezza nello stare lì, fermi, a fare quelli che si deve fare, per gli altri. E forse anche per se stessi.

Ricordo, chiusa tra queste porte aperte di casa mia, il rumore dei treni, i passi svelti della stazione, i bus che portano tutti a destinazione, le macchine frenetiche e impazienti, il respiro dell’attesa che cadenza il tempo tra una fermata e l’altra, verso il posto di lavoro.

Ricordo il camminare solito, noioso e annoiato, quello che in tante occasioni ho pensato: “devo cambiare”, come se cambiare strada volesse dire dare energia alla giornata. Quel camminare che mi porta a prendere il solito caffè. Tra le solite battute.

Ho perso quei passi. Mi fanno male le anche. Già sento l’arrivo del mal di schiena. Come se il corpo si fermasse. Ho perso il corpo. Non mi porta dove devo stare, dove voglio stare, dove mi diverte stare. Il corpo mi tiene ferma nell’attesa, tra questa quattro mura.

In questo corpo fermo, sento il sangue vibrare, continuamente, e con lui la testa: stai tesa, ché sta per passare. Stai in allerta, che stai facendo la cosa giusta. Stai in campana, che bisogna essere presenti a se stessi. Non perderti: lavora, ma lì ferma.

Ho perso le lacrime. Non scendono. Mai. Neanche quando penso che mi mancano così tante persone quante ne ho trascurate nel corso del tempo. Eppure era il mio tempo. E io non c’ero. Ero altrove.

Non riesco ad odiare questo fermarsi. Questa attesa che brucia il corpo e corrode la mente, io, non riesco ad odiarla. Anzi, la amo. Mi dice che ci sono. Mi ricorda che posso scegliere di non essere altrove. Mi racconta della mia solitudine e della mia socialità, del mio benessere, delle mie fortune. È questo stare immobile che mi dice quanto potrei stare in movimento.

Non vedo l’ora che tutto abbia fine. Per riprendere a respirare. Per dirmi che ho fatto bene a resistere, per ogni singola persona che, comunque sia andata e comunque vada, vale la pena avere nella propria vita.

 

Carolina Ciccarelli, Giovani delle Acli Bologna

TORNEREMO E SARÀ PIÙ BELLO CHE MAI

Erano le ore 21.00 circa del 7 marzo 2020, ero a cena con alcuni amici e ad un certo punto arriva la chiamata di mia madre, era molto preoccupata. Diceva cose tipo “finirai per rimanere lì! La Lombardia sta per essere blindata! Torna a casa!!” Dopo 10 minuti il telefono ha squillato di nuovo. Era un mio amico “Fede hai sentito?”“Si ho sentito” “Io sto partendo ora con la macchina, tra mezz’ora chiudono tutto! Ti passo a prendere? Torniamo a casa!”. 

Quella sera per la prima volta ho avuto la sensazione di essere in gabbia. Finita la cena, sono andata verso la metro e sembrava mi mancasse l’aria. I vagoni della metropolitana erano semi vuoti, ognuno era sulle sue, molti parlavano al telefono, erano preoccupati. Anche io lo ero. Lo ero molto. Ma per molti quella era ancora solo e comunque una semplice influenza.

Domenica 8 marzo la passai al parco, c’erano tantissime persone a cantare, suonare a ridere e anche se tutto dava l’idea di essere una domenica come le altre, l’aria spensierata di quella giornata era pronta per dare il cambio ad un’aria nuova, gelida e colma di paura.

Quel che accadde da lunedì 9 in poi, bene o male, è un ricordo uguale per tutti, ma, per quanto uguale esso sia, ognuno di noi sta vivendo la quarantena in maniera del tutto diversa.

Mi chiamo Federica, ho 28 anni, vivo a Milano, ma il mio cuore è completamente perso per la mia città natale, Chieti e quella notte dell’8 marzo in cui molti miei amici scapparono da Milano per tornare nelle proprie città d’origine io decisi di restare qui, a Milano. Come? Facendo un grande respiro, razionalizzando il problema e anteponendo la coscienza all’istinto di scappare.

Perche non esiste età in cui, nel momento del bisogno, non si desideri tornare a casa tra le braccia di papà e mamma, ma, allo stesso tempo, non esiste paura che non possa essere dominata dalla razionalità. Tornando a casa probabilmente non avrei peggiorato le cose, ma sicuramente non le avrei migliorate.

Non mi pento di essere rimasta qui, ma la mia famiglia mi manca terribilmente, mi mancano i miei genitori e mi mancano i miei fratelli che vivono a Londra e Rotterdam. Una famiglia come la mia, in un momento come questo, è messa a dura prova, ma quando la salute è dalla propria parte, mentre fuori dalle mura di casa è in atto una pandemia, ogni sforzo diventa ricompensa.

Milano, oggi è a tutti gli effetti una seconda casa per me, l’ho sempre vissuta in costante movimento, di corsa, condita da immenso stress. È una città che va veloce, che ti impone di stare al passo, di non mollare e, a volte, questo fa sì che tu senta il bisogno di fermarti, ma mai la voglia di farlo.

Questa quarantena, per forza di cose mi ha fermata, anzi, ha fermato tutti e ora l’unica cosa che guardo è la strada di casa mia, dove dai balconi vedo sventolare bandiere dell’Italia.

Ho finalmente conosciuto i miei vicini dopo un’anno e mezzo che abito in questa casa, ho scoperto che Milano ha dei colori al tramonto che mi ricordano un quadro bellissimo e ho capito che il cliché secondo cui le persone del nord sono persone fredde è solo un cliché.

Il silenzio dilaniante di questa città è interrotto da applausi al balcone e dalle sirene delle ambulanze che sono ormai un sottofondo a cui non possiamo e non dobbiamo abituarci.

Quando tutto questo finirà, perché certo che finirà, la prima cosa che farò sarà tornare a casa mia, voglio riabbracciare i miei genitori, voglio passeggiare per le strade della mia città, voglio prendere un aereo e volare dai miei fratelli, voglio prenderne un altro e andare dappertutto. Voglio camminare, non voglio più prendere la metro per fare 1 km, voglio respirare quella meravigliosa, stupefacente e unica sensazione di libertà che stiamo annaffiando come un fiore per poi farla sbocciare quando finalmente tutto questo sarà finito.

Torneremo a fare la fila al cinema la domenica pomeriggio, a fare le code in tangenziale, torneremo a prenotare tavoli nei ristoranti, a fare le file in camerino, a prendere il caffè al bancone, a sederci al bar per fare aperitivo, ad uscire con quelle persone che poi non sono nemmeno tanto simpatiche. Torneremo a fare sport all’aria aperta, ad andare per musei, ad andare in biblioteca, a passeggiare in centro. Torneremo a prenotare voli, treni, alberghi per raggiungere qualsiasi posto il cuore voglia portarci. Torneremo a riempire parchi, a riempire stadi, torneremo ad essere noi. Torneremo a calpestare il suolo di questo paese meraviglioso quale è l’Italia.

Torneremo a fare tutte quelle cose che almeno una volta nella vita ci hanno fatto pensare “no che palle, ma non potevo rimanere a casa?!”

 

Federica D’Alessio

Una nuova Comunità, una nuova Dimensione

[…] Viviamo “Strani Giorni”, come canterebbe Franco Battiato, così carichi di novità (sovversive) che li ricorderemo a lungo. Perché l’Italia, sta affrontando una serie di curve della Storia da cui non potrà uscire come è entrata. Probabilmente più fragile. Provinciale e isolata, sicuramente molto diversa. […]

Sono queste le parole iniziali del libro di Francesco Delzio dal titolo “La ribellione delle Imprese”.
Era uno dei tanti libri accatastati sulla scrivania, ancora non letti, in attesa di un periodo in cui ci fosse il tempo per dare loro il giusto rilievo. Ed ecco che, come narra il famoso detto “la vita è quello che ti succede quando si è impegnati a fare dei programmi”, quel tempo è adesso arrivato.

Non è certo per dare a quelle parole il “potere” della predizione che le ho citate, ma perché mi parve quantomeno ironico leggerle all’indomani del famoso decreto del 9 marzo in cui il Presidente del consiglio dei ministri annunciava il lock down italiano.

Delzio scrisse infatti quel libro nel 2019, periodo “lontanissimo” dalla fragilità di questi giorni, e raccontava il disagio e la rivolta del mondo delle imprese contro un crescente collettivismo.

Ma quelle parole così involontariamente profetiche produssero in me profondi sconvolgimenti interiori, ed anche se il contesto è ormai pandemico, globale ad ormai 3 settimane dall’inizio della quarantena mi è impossibile non rimanere ancorato alla dimensione Italiana, sia questo un limite o un non limite della mia mente, lo chiamerei più semplicemente un istinto, ed è a partire da questo istinto unito ad un forte senso del dovere che tutto il “popolo” del volontariato ha dato ancora una volta prova della sua solidità dimostrando di poter fare la differenza in momenti come questo  mettendo  in piedi ingenti reti di solidarietà e dipingendo, ancora una volta, il ritratto di un’Italia che sa come tendersi la mano.

Perché al di là delle prese di posizioni discutibili di sindaci sceriffi, governatori armati di lanciafiamme, il nostro paese è ancora il paese dei molti eroi senza nome. Perché una volta usciti da questo pantano l’unico modo per risollevarci è facendolo tutti insieme, come popolo;  ognuno pensando a ricostruire l’adiacente, il meglio conosciuto, partendo dalle proprie realtà.

L’opportunità che ci si presenta da questa profonda sciagura, non appena sarà sotto controllo, è quella di immaginare il dopo e quindi ricostruire la nostra comunità partendo da una dimensione umana, una comunità per l’uomo e a misura d’uomo; la propria casa partendo da fondamenta più solide, da facciate più belle, da balconi più fioriti.

Perché, citando Guccini, “nel mondo che faremo Dio è risorto”.

Giovanni Bunoni (Vicecoordinatore Nazionale Giovani delle Acli)

#coronavirus #litalianonsiferma #iorestoacasa